Non devi pensare

Mestieri
elettricistaLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
Francia, GermaniaData di partenza
1957Data di ritorno
1970Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)

Luciano Giovanditti, partito giovanissimo dalla Puglia per cercare lavoro all’estero, descrive l’alienante giornata tipo trascorsa in una fabbrica di filature del Nord della Francia.
A vent’anni i giochi erano fatti, i dadi erano gettati, rien ne va plus. Non parlavo né francese né italiano, appena il mio dialetto. Mischiavo tutto. Tutti quelli che conoscevo mischiavano tutto, tutti ridevano di questa beffarda situazione. Anch’io. Non capivo che senza la conoscenza di una lingua potevo solo fare il giro della mia stanza ed era già troppo. A vent’anni, i sogni dei miei tredici anni si accorciavano come sigarette consumate sulla bocca di un adolescente che non sa quanto male gli potrebbero procurare. Fumavo poco, giusto quel poco per apparire interessante e per nascondermi le delusioni. Fumare mi faceva meno male che pensare. Pensare mi sembrava l’infinito, l’irraggiungibile. Tutto, tutto quello che pensavo, era al di fuori della mia portata e dai mezzi economici della mia famiglia. Potevo solo andare a lavorare otto ore al giorno. Otto ore sacrosante, infilate a filare e a defilare intorno alle macchine di filature. Otto ore a fare nodi e a sciogliere matasse. Otto ore a scaricare bobine piene e a caricare bobine vuote. Otto ore senza sosta, neanche un minuto per mangiarsi una tartina con le mani pulite. Per andare al bagno bisognava raccomandarsi al vicino per farsi dare una occhiata alle tue macchine, perché non potevamo fermare i motori. Eravamo sotto sorveglianza dei capi. Bisognava filare e girare intorno alle macchine, costantemente. Tutto questo giusto per il mensile, che rappresentava lo stretto necessario per il fabbisogno giornaliero e la bottiglietta di coca-cola che mi offrivo ogni sabato sera quando mi prendeva la febbre di andare a ballare. A questo si riduceva la mia vita a vent’anni. Non sognavo più, non pensavo più; altri lo facevano per me. “Tu non devi pensare” Diceva il mio capo e altri superiori quando mi scappava di dire: — Ho pensato che…
Piano piano, non andai neanche più a ballare, piano piano neanche più a lavorare, piano piano non mangiai neanche più, bevevo solo acqua. Sprofondai sopra il divano, nello sbigottimento generale dei miei cari che senz’altro si chiedevano che tipo di tegola mi fosse cascata sulla testa.
Il viaggio

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