Tagliatelle e piadine

Il locale non chiudeva mai, non avrebbe potuto, anche volendo, poiché non esistevano porte. Vi si accedeva, attraverso un porticato ombreggiato da una bassa tettoia, e sì entrava nella fresca penombra di una vasta sala, con i tavoli allineati in varie file che potevano ospitare un centinaio di persone contemporaneamente; a sinistra c’era il banco del bar, di fronte la cassa, dove regnava mia madre, sempre accuratamente vestita e profumata, come una regina assisa sul suo trono. La cucina invece era il regno incontrastato del babbo, che qui imparò dai vari cuochi l’arte della gastronomia, e diventò così bravo da superare poi i suoi maestri. Era un ambiente molto vasto e ben aerato, con un’immensa cucina al centro e da un lato due celle frigorifere che potevano contenere vitelli interi; dall’altro lato il locale con i lavelli per lavare i piatti, dato che a quei tempi le lavastoviglie erano ancora di là da venire. C’era poi una stanza dove si faceva la pasta per le tagliatelle, a mano si impastavano chili di farina e cesti di uova e si usava una macchina azionata a mano da un indigeno, per assottigliarla. Qui nascevano le tagliatelle, e qualche volta, in occasioni particolari, si diffondeva l’odore inconfondibile della piadina, che risvegliava nei romagnoli presenti ricordi e nostalgie di terre lontane e di persone care. Tutte le mattine, alle prime luci dell’alba, si diffondeva nell’aria il caldo profumo del pane: dal locale retrostante, dov’era un capace forno a legna. E. chiamato Pasticcio per la sua abilità nel campo della pasticceria, sfornava cesti di croccanti panini che avrebbero accompagnato i pasti degli avventori per tutta la giornata.