Beirut, Damasco, Baghdad, Teheran

Ci siamo imbarcati a Brindisi, su una piccola nave che ci avrebbe portati a Beirut.

A bordo abbiamo fatto amicizia con padre e figlia inglesi. Lui andava a Baghdad quale consigliere del Governo. Ci trovavamo la sera per l’aperitivo, ed il padre mi aveva soprannominato “Lady Martini”. Quando siamo sbarcati a Beirut, abbiamo notato nel loro bagaglio una specie di valigetta, alta, rettangolare, oggetto di cure speciali. “Ma che cosa conterrà, che dici, sarà una radio trasmittente?” “Ma certo, vedrai, è una spia degli inglesi” ed altre congetture.

A Beirut abbiamo preso con loro una macchina per Damasco, passando a vedere le meravigliose colonne di Baalbeck. Nel sistemare il bagaglio il padre disse alla figlia “Stai attenta a quello” indicando l’oggetto sospetto. “Sa, contiene il mio cappello a cilindro, e se lo perdo, non potrò certamente comperarne un altro”.

Rimanemmo con un palmo di naso.

Damasco, allora, era una città incantata; una guida ci portò in alto, e vedemmo queste case illuminate contro un cielo azzurro.

Ma io continuavo a piangere.

A quell’epoca la traversata del deserto si faceva con un piccolo autobus. La società era stata messa su da uno scozzese chiamato Nairn. Si viaggiava tutta la notte, e guardando dal finestrino pensavo “Che orrore, se il conducente si sbaglia, e perde la pista, non ci troverà mai più nessuno”.

Una sola sosta, per l’immancabile tazza di thè, poi l’arrivo a Baghdad, più morta che viva, dalla stanchezza. Qualche giorno e poi con una macchina a noleggio, mille chilometri di polvere, di montagne, di fatica, e finalmente l’arrivo a Teheran; devo aver dormito per dodici ore!