La terra di Gugliemo Tell

È, questa di Guglielmo Tell, una terra che amo e che ammiro per la funzionalità, per l’efficienza dei suoi apparati sociali, per la sua democrazia; per il suo federalismo, che significa quotidiana convivenza di culture, razze, religioni. Per la sua umanità tollerante (18% di stranieri) nonostante i casi di razzismo: frange di inciviltà, virus di cui, pare, nessun Paese europeo, oggi, può dirsi immune. Una terra in cui sono rimasta per convinzione. Perché allora, si fa sempre più strada un male sottile che poi d’improvviso m’assale? E m’accorgo d’aver fatto i conti con una sola parte di me. L’altra metà del mio cuore è rimasta volutamente prigioniera di un mondo opposto a quello in cui vivo, che è a sud e che è parte di me. Sento che ora esso mi manca e mi fa star male, mentre m’invade il desiderio di una via lastricata, il ricordo di un Natale lontano, di quei monti. Anche qui ce ne sono. Tanti. Ma le immagini forti di quei panorami “più verdi, più folti: i miei” monti. Immagini che credevo, se non cancellate, almeno sbiadite, non così importanti. E invece mi mancano e mi manca il paese che ha il volto di una persona amata: un amore antico, ma che provoca ancora emozione nuova, attuale e reale. Un paese a cui continuo mentalmente a tornare per cercare di capire. “Possibile che a quarant’anni non sappia cos’è il mio paese? Ma queste cose si capiranno col tempo e con l’esperienza” (Pavese). E seguito a tornare, perché tornare vuol dire capirmi, ritrovare me stessa. E poi: “Un paese ci vuole, vuoi dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” (Pavese). Aspettare. Sì: di far ritorno da “te”, mio amato sud. Seppur brevemente: per una breve illusione, che poi mi aiuterà a (non) vivere.