Mestieri
impiegataLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
GermaniaData di partenza
1990Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Rientrata in Italia dopo dieci anni di lavoro in Germania come impiegata del Ministero Affari Esteri, Maria Emanuela Galanti raccoglie le memorie di alcuni italiani emigrati incontrati in quel periodo. Tra questi: Giacinto, operatore ecologico e padre di sei figli lasciati ad accudire un peschereccio in Calabria; Vittoria, che vuole rimpatriare dopo un matrimonio finito con un cittadino tedesco; DR, ristoratore calabrese che aspetta il ricongiungimento con la fidanzata albanese; Paolina, scappata con quattro figli dall'Italia dopo violenze e umiliazioni inflitte dai familiari; Giovanni, italo americano in cerca di lavoro e successo economico.
È con Giacinto che decido di scrivere dei miei incontri con gli emigrati italiani in Germania. In un afoso lunedì pomeriggio, al Consolato di Francoforte rimango sommersa dai certificati di nascita dei suoi sei figli, sui cui devo apporre un timbro di traduzione conforme. Servono al datore di lavoro che con quei certificati potrà corrispondergli un’aggiunta di famiglia più adeguata e cambiare la fascia di trattenute fiscali. Sul momento non mi rendo conto che i sei figli di Giacinto vivono in Italia e non in Germania. Anche lui ha saputo con ritardo che i datori di lavoro qui in Germania, ai fini fiscali, prendono in considerazione i nuclei famigliari disgiunti. Mi sembra un istituto civilissimo e non posso fare a meno di domandarmi quale datore di lavoro di quale fabbrica del nord-italia faccia lo stesso per i pochi lavoratori extra-comunitari che nel mio paese sono riusciti a sottrarsi al “sommerso”. Chiedo a Giacinto in quale settore lavori e lui, arrossendo un po’ – ma la scorza della sua pelle è così dura che il rossore quasi non riesce ad arrivare in superficie— mi risponde che è in Germania solo da un mese e che per ora lavora come “Operatore Ecologico”, ma che magari presto cambierà poiché ha firmato un contratto semestrale con una ditta per il lavoro interinale che lo manderà dove c’è bisogno di lui. Proprio così, “0. E.”, mi dice e sorrido perché riconosco l’acronimo edulcorante, segno, chissà, di una diffusa sensibilità sociale, o assai più probabilmente dell’ammiccante compiacenza di qualche impiegato statale, desideroso di nobilitare tutta la categoria. Ma ora che O. E. non si usa più, spazzato via da qualche riforma linguistica, rimangono pur sempre gli spazzini e Giacinto, seduto di sghimbescio sulla sedia davanti a me, non mi sembra che sia stato portato a questo lavoro o all’emigrazione da vocazione. La mia reazione brusca, dettata da seria preoccupazione (come può farcela Giacinto a mantenere 6 figli con un lavoro interinale?) rischia di offenderlo, ma non riesco a trattenermi … Piantandogli gli occhi addosso gli chiedo proprio così: “ma lei come pensa dì farcela a sostenere una famiglia composta di sei figli con questo tipo di lavoro ?”. Giacinto non risponde. È lo sguardo scorato della cognata, una “veterana” dell’emigrazione che lo ha accompagnato oggi in Consolato e antecedentemente in tutti gli uffici pubblici tedeschi, a confermarmi che la preoccupazione è condivisa anche dal suo nucleo famigliare. Ma Giacinto non abbassa lo sguardo e così risponde lo stesso, con occhi luccicanti – non so se per qualche lacrima che sta per sgorgare o per l’accendersi di un ricordo più glorioso. Sì, è un eco di lampare che ora affiora nei ricordi di Giacinto, che inspiegabilmente si lascia andare e mi racconta che a Corigliano Calabro i sei figli e la moglie li ha lasciati a far da guardia a un peschereccio che era stato di suo padre. Un peschereccio che, nonostante l’assidua manutenzione e le successive mani di vernice non ce la fa più a nascondere la sua stanchezza a solcare il mare, la sua costernazione per riuscire a tornare ogni sera di pesca solo con un magro bottino, un pescato che non riesce a sfamare più nessuno. Di questo mi racconta Giacinto e non dice altro, ma mi dice così della sua disperazione, che l’ha motivato ad emigrare. E quegli occhi luccicanti e fieri, quella pelle da pescatore così resistente alle intemperie mi dicono che non tornerà presto al suo paese, che non ammetterà facilmente una sconfitta…
Sono passati due o tre mesi dall’incontro con Giacinto ed in Consolato incontro di nuovo la cognata, sulle scale, mentre lei sale ed io scendo. Ha dei problemi con l’affitto ed ha bisogno del nostro reparto di Assistenza sociale. Le chiedo: “e Giacinto”? E lei ripete quello sguardo scorato del primo incontro. Aggiunge che Giacinto, per mandare appena il necessario alla famiglia, ha lasciato la stanzetta che lei gli aveva trovato e vive con i senza tetto, come un barbone, andando a dormire nei ricoveri cittadini. Di Giacinto poi non ho saputo più nulla, ma per qualche notte di seguito ho sognato il suo peschereccio, che prima era verde sfavillante con una bella striscia rossa e tanti monelli che ci giocavano dentro e poi era scuro-scuro, scuro come il mare nero che lo portava verso nuovi lidi. Ma i passeggeri ormai non erano più bambini, erano uomini magrissimi, sopravvissuti ad una grande fame e ad una più grande ingiustizia. E a quale terra approdasse il peschereccio nel sogno non l’ho potuto vedere e neanche il suo nome l’ho mai saputo.
Il viaggio
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