Mestieri
giornalistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Repubblica CecaData di partenza
1953Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Anno 1953: dopo la morte di Stalin, Paola e il marito Sergio vengono contattati dai vertici del Pci, il partito nel quale militano, per un’offerta di lavoro che li porterà a lasciare l’Italia.
Era il marzo del 1953 quando morì Stalin. Sapevamo che il suo nome voleva dire uomo d’acciaio. La città che portava il suo nome, Stalingrado, era stata distrutta dai nazisti durante la guerra. Non sapevamo altro. Non ci scalfi nemmeno l’accusa di spionaggio che era stata fatta nei confronti di un gruppo di medici sovietici che vennero incarcerati e poi liberati. Davanti all’ambasciata sovietica di via Gaeta si formarono file di persone piangenti e silenziose. Anche noi ci mettemmo in fila. Non avrei mai potuto immaginare quel giorno della festa, che sarei ritornata all’Ambasciata per la morte di Stalin. Dopo quasi tre ore riuscimmo a mettere la nostra firma sull’album sistemato nell’atrio.
Il compagno della sezione che ci aveva venduto la camera da letto a rate, ci mandò l’ufficiale giudiziario a riprendere i mobili, perché non eravamo riusciti a pagare tre rate consecutive. Ero sola in casa quando venne con due facchini Mi lasciarono solo la rete del letto. Mentre liberavo cassetti e armadio, cantavo la Marsigliese. Poi andai da Sergio nel negozio di via Enea, vicino a san Giovanni. Andammo a mangiare una pizza. Dopo non molto, per fortuna, tutto cambiò. Quasi all’improvviso. Da Botteghe Oscure ci proposero un lavoro per il PCI a Praga.
Era la fine di novembre del 1953. Un martedì notte. Il treno sbuffava e stavamo uscendo dalla stazione Termini. Lasciammo il finestrino. Ormai genitori e fratelli non sventolavano più i fazzoletti bianchi e ci sedemmo. Erano venuti a salutarci. C’era anche il cugino di mio marito, Giorgio, con la moglie Anna Maria e mia suocera che non riuscì a non commuoversi. Quel suo unico figlio che le aveva dato tante preoccupazioni, se ne stava andando e chissà quando sarebbe ritornato. C’erano state tensioni, perché tutti erano contrari alla nostra partenza: “In che guaio ti vai a cacciare?” mi aveva chiesto mia madre. Io, come al solito, non le risposi e alzai le spalle. Continuò a dire che ero pazza e che mai le avrei dato una soddisfazione, che il mio matrimonio era tutto sbagliato, che avrei dovuto laurearmi in pedagogia e invece avevo buttato tutto all’aria. Ero un’incosciente. Alzai le spalle, salutai papà e le sorelline e me ne andai. Sapevo che con lei non era possibile ragionare. Per questo non avrei pensato venissero a salutarci in stazione. Ne fui meravigliata anche perché era quasi mezzanotte. Tutti sapevano soltanto che eravamo diretti a Praga e nient’altro. Eravamo stati molto reticenti, come ci avevano detto di fare. Non avevamo nemmeno lasciato il nostro futuro indirizzo, perché non lo sapevamo e non avevamo detto quale lavoro di preciso avremmo fatto, né quanto tempo saremmo rimasti a Praga. Anche noi sapevamo soltanto che avremmo lavorato per la radio clandestina del PCI, ospitata gratuitamente dalla Cecoslovacca, come solidarietà dell’internazionalismo socialista. Mia madre mi confessò al mio ritorno in Italia, che pensava fossimo stati arruolati dal KGB, Ke ghe be come si dice, cioè Kamitiet Gosudarctviennaia Bezopacnoct, Comitato per la Sicurezza dello Stato, tragicamente noto in Italia come Kappa Gi Bi.
In quegli anni il governo italiano non rilasciava i visti per gli Stati dell’Est, oltre cortina, come venivano indicati i Paesi del socialismo reale. A quei tempi gli iscritti al PCI o i sospettati di simpatia per i comunisti, non potevano ottenere il visto di ingresso negli USA. Il nostro era un espatrio clandestino e sul passaporto un timbro indicava tutti i Paesi che l’Italia vietava. Avevamo trovato posto in uno scompartimento di seconda classe con cuccette. Mi strinsi in un lungo abbraccio a mio marito. Eravamo felici. Non ci interessava il viaggio, non ci incuriosivano i luoghi che avremmo attraversato, ma soltanto la fine del viaggio, Praga, una città della quale sapevamo pochissimo, anche se a Botteghe Oscure ci avevano fatto leggere diverse cose sulla Cecoslovacchia. Praga voleva dire non soltanto aver trovato un lavoro per tutt’e due, ma lavorare per accelerare il processo della democrazia nel nostro Paese e farlo diventare un pacifico e libero Paese socialista. Ci eravamo sposati nel luglio dell’anno precedente, io venti anni e lui ventiquattro. Io avevo trovato solo sporadiche supplenze in paesini della provincia romana (che raggiungevo con difficoltà quando lui non poteva accompagnarmi con la topolino) alzandomi alle cinque la mattina e un doposcuola nel quartiere San Lorenzo.
Il viaggio
Mestieri
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