Port Elizabeth, città europea

Dopo dieci giorni di navigazione entrammo in un porto grande, bello e solitario: Porto Elisabetta, all’estrema punta del tozzo continente africano.

Non più caldo, non più sudore. In quella bella terra era autunno. Un autunno ventoso, freddo, burrascoso. Mi ero stretta nella pelliccia, avevo chiusi i capelli in un fazzoletto, avevo diligentemente incappottati i miei vivaci e lieti bambini.

Dieci giorni di navigazione avevano rinvigorito i nostri corpi nella bella, sia pure uniforme, vita di bordo. Quiete di spirito e di corpo. L’aria pura del mare e la tranquillità avevano ridestato il nostro appetito e avevano fatto rifiorire il sorriso sui nostri volti.

La bella nave, seguita a poca distanza dalla sua fedele gemella gettò le ancore nel grande porto deserto. Da quando era scoppiata la guerra, non c’erano più navi mercantili ad allietare col loro movimento il porto del Sud-Africa. Le grandissime gru, simili a immense giraffe, tacevano volgendo al cielo il loro uncino immobile. Due si mossero per caricare le stive delle nostre navi. Per due giorni ci allietarono con il loro stridio e le voci di comando degli uomini; la chiglia si riempì di acqua potabile, fornita generosamente dalle grosse tubature che corrono sulle banchine d’approdo. Per due giorni osservammo la bella città, adagiata sui colli, i suoi bei palazzi e le sue vie centrali, le sue villette periferiche, in tutto simile alle grandi e belle città europee. Era la prima volta, dopo anni di prigionia e di tormenti, che ci appariva una bella città e salutammo in lei le nostre città italiane.