Né a casa né in guerra

La nostra vita coloniale non meriterebbe davvero di dedicarle un altro rigo oltre i molti che ci ho già sprecati: perché è una cosa così monotona, così priva della minima ricreazione che spinge davvero al disgusto. Siamo a Chisimaio da 10 mesi, e nei primi tempi, cioè fino ad agosto, c’è stato il suo daffare per la preparazione del campo trincerato. Lavoro inutile, anche questo, perché era semplicemente assurdo pensare che si presentasse l’eventualità di dover difendere un giorno Chisimaio dall’assalto di un nemico che dista 700 Km. da noi… Ma anche ammettendo che quel lavoro fosse di una qualche utilità e necessità, resta pur sempre il fatto che da cinque mesi ce ne stiamo colle mani in mano, nell’ozio più completo, senza altra distrazione che quella di combattere colla ricca serie delle malattie coloniali e nostrane che si manifestano mano a mano che si prolunga la nostra permanenza. Che cosa stiamo a fare a Chisimaio? Qual è il compito che ci è affidato? Dobbiamo andare a combattere? E andiamoci, dunque! Siamo troppo in cattivo stato per andare alla guerra? E rimpatriateci, allora: ma, in un modo o nell’altro, questa situazione deve avere un’uscita. Non ci vorranno mettere mica sullo stesso piede di quelle poche migliaia di sciancati della Tevere, che sono venuti in Africa soltanto per far numero e per mangiare un altro po’ di pane del governo, nonché per aggiungere un altro nastrino agli altri già conseguiti forse nello stesso modo? A quello che si dice, il 3° ed il 4° si trovano proprio al fronte, ed hanno preso parte alla grande avanzata di questi giorni. E noi… noi facciamo come quei famosi gendarmi di Offenbach, che ho sentito rammentare tante volte e che non so neppure chi siano: «Partiam, partiam, partiam…».