Il bianco taumaturgo

Un giorno, al nostro accampamento formato dalle nostre tende vicine al segnale trigonometrico, arriva un ragazzo che conduceva, attaccato alla estremità di un bastone, un altro indigeno più vecchio. Tramite l’interprete vengo a sapere che questo poveretto non ci vede o meglio riesce a distinguere solo la luce del giorno dal buio della notte. Mi avvicino e lo osservo per bene e vedo che ha le palpebre chiuse, anzi, devo dire cementate dalla cispa. Lo faccio mettere a sedere e metto a bollire dell’acqua, quando si è freddata abbastanza preparo dei batuffoli di cotone idrofilo e ne faccio dei tamponi che metto sugli occhi di questo individuo. Dopo un po’ di tempo, con molta precauzione e pazienza, riesco piano piano a separare le due palpebre. Non so descrivervi l’urlo di questo indigeno che finalmente riusciva a vedere di nuovo. L’interprete non riusciva a tradurre tutto quanto quello che mi diceva: io ero suo padre, sua madre, la sua vita era nelle mie mani, i suoi figli erano i miei servitori…

Potete immaginare la fila di persone che la mattina dopo mi trovai ad affrontare, tutte con lo stesso guaio. Questa zona era particolarmente colpita dal tracoma che causava la progressiva saldatura delle palpebre dato l’inesistente concetto di qualsiasi misura igienica. Ho quasi esaurito la mia scorta di cotone idrofilo e collirio per ripulire gli occhi di una diecina di questi indigeni colpiti più o meno gravemente da questa progressiva saldatura delle palpebre, fino a che mi hanno portato una poveretta per la quale non ho potuto fare niente perché questa era veramente cieca.