Dodici ore di lavoro al giorno

Al terzo giorno di lavoro c’è un allarme, sopra al lager passa una squadriglia di bombardieri, io molto spaventato mi metto a correre, salto sopra un’aiuola calpestando dei fiori, il Kapò mi chiama indietro mi mette sull’attenti, mi dà una sberla che mi fa ruzzolare per terra, quando entro in baracca con la faccia gonfia i compagni di stanze mi dicono: guarda che qui se vuoi vivere più a lungo, non devi aver paura, poi quando suona l’allarme ci mandano fuori dall’officina ed è l’unico momento che ci possiamo riposare. Per me è stata una lezione, ho capito che la paura bisogna provarla per valutare i tuoi limiti, ho capito che la paura bisogna tenerla nascosta, poi naturalmente devi essere in grado di controllarla, la convinzione di tutti è che qui nessuno uscirà vivo, è soltanto questione del come sarà la tua fine, una corsa più o meno lunga, e più o meno infelice, perciò aver paura non ha senso, l’internato deve vivere al di là della paura e della morte.

L’autonomia di un internato che lavora 12 ore al giorno senza sosta è di 7 o 8 mesi qualcuno anche di più, ma molti al terzo o quarto mese al massimo non ce la fanno più e crollano per la fatica. Il lavoro è pesantissimo, con nessuna difesa contro il freddo, che col gelo d’invernale le mani ti rimanevano attaccate al ferro che scaricavi, con il Kapò sempre alle costellano un bastone in mano che ti urla continuamente los – los arbaiten, dai dai lavorare, e quando il Kapò mette in movimento il suo bastone, un grosso bastone nodoso, lascia segni irreversibili.